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2014/10/18

Il giorno prima era estate


Il 13 agosto scorso ricadeva il settantesimo anniversario del disastro della diga di Molare. Dimenticato da molti, quasi tutti si ricordano del più noto Vajont che invero fu capace di mietere alcune migliaia di vittime, anche questo disastro, come molti in Italia, si origina da una disattenzione, enorme, che rappresenta anche, ai giorni nostri, la ragione delle alluvioni e allagamenti delle nostre città: l'idrologia e più in dettaglio l'analisi delle rocce e del sottosuolo è argomento trattato con insignificante attenzione nel nostro paese e, quando si verificano disastri, lo scaricamento delle responsabilità diventa uno sport nazionale.

Godiamoci questo racconto, sintesi di una storia vera, di un disastro perso nella nostra memoria che bisognerebbe ricordare come un frutto marcio della fretta.

Il giorno prima era estate. Quello dopo, ognuno lo vedeva a suo modo. C'era chi tirava il fiato per la gran paura. Chi alla paura guardava ancora negli occhi, perché era dietro a cercare qualcuno o qualcosa che l'acqua si era portata via. L'acqua. Sempre lei. E quel fiume a dettare a tutti il tempo.

Il giorno prima era estate anche per quei due di Bandita che si erano procurati una corba a testa di uva luglienga da portare a spalle da Marciazza sino all'Acquabianca. 
Roba da non credere, fatiche da non dire. Cose da record, ma nel libro dei primati ci stava per finire la gran acqua che in 4 ore, il 13 agosto del 35, andava nei libri di idrologia a far gara con altre piogge raccolte da fiumi lontani sino all'India. Specialisti nel settore, quelli si abituati a diluvi fuori dal nostro pensare.
Andava così. Che i due di Bandita trovavano rifugio alla casa di Poldo, in faccia alla Sella. E sotto un tetto, loro, destinati a portarsi in spalla tutto quel peso, dovevano star più contenti di quelli che per l'indomani avevano solo pensato a giorni di festa e si ritrovavano con quell'ansia che dà sempre l'acqua quando scroscia e non smette.

Scroscia e non smette.

Poldo era ragazzo. Diceva che dalla loro casa la sella era in faccia e la si vedeva coperta da 3 metri buoni d'acqua. Che saltava il bastione e picchiava sulla terra, sulla roccia, su quello che c'era. Che il giorno prima sembrava indistruttibile ed in quelle ore diventava burro agli occhi dei pochi testimoni.
Due moriranno.
Tra i lampi, qualcuno, dai bastioni di lato più saldi, si sbracciava a cercare di segnalare che per il lago non ci sarebbe stato più scampo. Chi si è salvato lo deve a quella storia che dicevo. Le cose ed i panorami che tutti i giorni si vedono vengono quasi a noia, ma anche se non ci se ne accorge entrano nella pelle ed in certi casi la salvano. Quel panorama abituale alla famiglia di Poldo, in quattro ore era diventato una vista intollerabile. Ci si leggeva la fine di tutto e loro scappavano sotto l'acqua in salita su dalla scarpata. Lasciando quelli dell'uva luglienga a scaldarsi una minestra. Loro non c'erano abituati a quella diga e pensavano che le cose fatte dagli uomini non potessero averla persa in mezza giornata. Sotto l'acqua Poldo scappava e la cosa che più ricordava di quegli attimi, anni ed anni dopo, erano le caviglie di sua madre piantate dentro gli zoccoli a schizzare fango davanti a lui. Quelli dell'uva, ora, erano quelli della minestra. Uno avrà avuto la testa bassa a guardare il fuoco e girare nella pentola col mestolo. Ma l'altro di sicuro l'occhio verso la diga l'ha tirato, all'ennesimo lampo, e credo che lo spostamento d'aria l'abbia sollevato, lui, la minestra ed il compagno, tanto in fretta da fargli solo pensare a quei diavoli che i frati delle Rocche avevano ancora il vezzo di descrivere dal pulpito per spaventare i bambini, nel coro dell'Oratorio tra l'ultimo sbuffo di incenso e l'attacco del Tantum Ergo, i giorni della novena dell'Assunta. 
Quando Poldo me lo raccontava mi faceva venire i brividi. Come tutti quelli che in vita han letto poco, ma han sudato abbastanza, usava frasi corte per esprimere paure lunghe delle giornate: "neanche i colombi sono usciti dai coppi". L'acqua che saltava la Sella Zerbino e poi la faceva crollare aveva generato un maglio, fatto solo d'aria, che colpiva la collina di fronte e quella prima casa, disfandola con quello che c'era rimasto: gli oggetti di una famiglia contadina, due corbe d'uva, due di passaggio, una minestra ormai calda e quei colombi che sotto i coppi erano abituati a rifugiarsi.

Poldo quel giorno diventava uomo. Non credo che a correre via avesse il comando, ma il giorno dopo, quando arrivarono i primi carabinieri e qualche giornalista per spiegarsi tutto il disastro che era successo a valle, servivano braccia forti e gente che conoscesse tutte le curve del fiume, vecchie e nuove di quel giorno. Poldo era lì e a differenza di altri sapeva cosa cercare. Lasciamo stare i colombi, ma quei due di Bandita erano cristiani e se non si fossero fermati a casa sua sarebbero spariti. Neanche buoni per le statistiche. Poldo fu arruolato "volontario" ad entrare nelle acque limacciose che ora scorrevano lente e formavano nuovi grandi laghi, pericolosi perché pieni di mulinelli e detriti. "Castellunzè" sembrava un'isola e la spalla dove era stata la sua casa, la vigna e sopra, la strada per Olbicella, avevano perso ogni dettaglio lasciato dal lavoro degli uomini. Dopo quel maglio fatto d'aria compressa, era arrivata una mazzata d'acqua tanto dura e forte da compattare qualsiasi profilo, qualsiasi segno. Dove c'erano state terrazze coltivate, ora c'era una parete liscia come un intonaco. In fondo alla scarpata Poldo trovava il primo morto ufficiale di quel disastro. Uno che lì non avrebbe dovuto essere. Partito con il sole e previsioni di gran fatica, si era fatto tentare da una minestra nel posto sbagliato. Aveva finito la sua strada terrena sbucciato come un limone a galleggiare in acque che due giorni prima non c'erano. Poldo l'aveva trovato incastrato tra gli arbusti, duro e pesante, e l'aveva trascinato, mi diceva lui, afferrandolo in mezzo alle gambe dove un po' di stoffa rimasta lo faceva scivolare di meno. Per quei giochi che fa il destino, quel viaggio a riva aveva la sua importanza. Furono dati, voglio sperare, aiuti alle famiglie colpite, ma credo che dimostrare d'aver avuto dei lutti fosse necessario. E aiuti credo proprio che servissero a chi per arrotondare portava per chilometri in spalla una corba d'uva. Dimostrare di esserci, anzi, di esserci stato, lì a prendersi tutta la sventura sino all'ultima goccia, era certo difficile per chi non poteva contare su una residenza conosciuta da quelle parti. Non mi risulta che il compagno di minestra abbia avuto altrettanta fortuna. Altri corpi a valle se ne trovavano, ma fu certo più semplice attribuirli a chi si sapeva per certo che da qualche parte doveva pur essere finito.

Quel giorno di agosto fu una specie di sposalizio tra il torrente ed il paese. Dissero chiaro e tondo a tutti gli invitati che si trattava di un'unione ufficiale e definitiva. Nel bene e nel male. Si erano sempre frequentati e la vita certo ne era derivata. Ma quel giorno l'acqua era scesa, sulle sue solite strade, con un vestito nuovo, ampio come un turbine. Travolgeva, faceva nuovi passi e si faceva annunciare da un rombo sordo che durò tutto il tempo di pranzo.

Al meglio, sarebbe occorso un maestro di cerimonia che la precedesse fino al paese per mettere in riga gli invitati - una carrozza che corresse sotto l'acqua a perdifiato per i tornanti dalla diga sino a San Sebastiano. Capitò invece come quelle volte che in piazza c'è animazione crescente per qualche macchina lustra e qualche buon vestito che vanno a fermarsi davanti al sagrato. E chi passa si immagina di lì a poco l'arrivo di quelli della sposa. E aspetta e chiede chi sono. E' un po' preparato alla sorpresa ed un po' no. Ma aspetta per vedere. Il preannuncio non fu quindi dato al telefono, né da qualche uomo che fosse riuscito a correre davanti a quella lingua d'acqua che riempiva le gole. Prima di un metro, poi di dieci, venti, sino a strozzarsi contro qualche barriera e poi riesplodere nella corsa. Niente campane. Un muggito sordo, basse frequenze che toccano qualcosa dentro e fan prima a spaventare gatti ed uccelli, ma tormentano anche i cristiani più sensibili.
Quelli agitati quel giorno o da quando eran nati.

Pagine fa avevamo un bel posto per seguire le storie e raccontarle. La riva 
che punta verso Battagliosi sulla riva destra del fiume. La miglior terrazza per guardare il paese. Ma sarà il caso che ci si tolga, che si vada via. A guardare si, ma da più lontano. E' quello che tanti per fortuna hanno pensato. Meno quelli che avevano le cose in basso e che avevano poco tempo per decidere e molti motivi per convincersi che l'impossibile non potesse succedere.

Di quell'ora ho parlato con tanti.

Ora so che c'era un gruppo numeroso in fondo al paese all'imbocco del ponte.
Una banda di ragazzi che si muoveva tra la Chiccolina e la scarpata sotto l'Oratorio.
Qualcuno della famiglia Bruno dentro la loro casa nuova.

Sarà il nostro testimone. I nostri occhi tutti questi anni dopo. A fermare un rumore. Trasformare un rimbombo che durava da un'ora e che adesso aveva la sua forma liquida a divorare il paesaggio.

Il nostro uomo al riparo della casa, scattava la foto alla sposa che arrivava in paese.

Eccola.

Disastro di Molare
Con il suo strascico avrebbe fatto una decina di vittime tra la "fontana" e la "ghiaia". Avrete capito che forse qualcosa nel conto saltò e che i nomi ed i corpi per farli coincidere ci volle molta buona volontà. Ma proseguendo su Ovada ebbe la sua gloria, incrementò il bottino e conobbe giorni dopo i Reali in visita. Noi ci fermiamo dove siamo. Altri hanno raccontato e bene quello che accadde passato il ponte di ferro. 
Sotto San Giorgio era roba da uomini. L'acqua lambiva le prime case del paese. C'era qualche carabiniere, braccia forti pronte a far qualcosa e di sicuro una macchina fotografica dalla quale nulla ci è pervenuto. L'hanno vista in più d'uno ed ho idea di chi l'avesse. Non so che possa aver visto e a noi non testimoniato. Doveva essere un diluvio. Assordante il rumore delle acque che sbattevano contro il ponte, sgretolandolo con i colpi d'ariete scagliati da tronchi, pietre e macerie trascinate dalla valle. Una foto, da lì, sarebbe certo stata difficile da fare ed avrebbe offerto poco da vedere: solo un gran tumulto di grigi impastati l'uno con l'altro dal tremore della mano. Ci mancherà quindi, e non potremo far altro che immaginarcelo, un gruppo di cappellacci grondanti d'acqua con volti sotto mezzi coperti e con in vista solo gli occhi sbarrati ed un braccio teso ad indicare a tutti qualcosa. Sul bordo del fotogramma due carabinieri, più composti degli altri, a fornire un minimo di règia dignità e sicurezza. In fondo in fondo, a salire, qualche puntino ad indicare ragazzi e qualche donna a spingerli in direzione di Cassinelle e Cremolino. Verso case di cugini che offrissero riparo e il tempo per pensare. Dalla casa dei Bruno invece si vedeva tutto con comodo ed il tetto era nuovo e l'orrore poteva riguardare solo quanto era di altri e non proprio. Che lì tutto era sicuro. Tante furono le foto. Una sola quella arrivata sin qui. Mostra un mare d'acqua che trova ostacolo nel ponte e vi rigurgita sopra, scavalcandolo, ma sentendone ancora la consistenza forma un profilo, come di un'onda, su tutto quel bastione che legava Molare ad Ovada. Persino il Rio Granozza ha trovato da riempirsi ed allagare tutta la sua gola. Quello che si prepara è l'ennesimo sfondamento che trasformerà l'acqua, che sta ribollendo contro la diga precaria rappresentata dal ponte materiale, nel fronte in grado di travolgere e far scomparire l'intero ponte ferroviario. Sono i ragazzotti che abitano nella parte alta del paese gli unici a vedere tutto con occhio diverso. Le loro famiglie sono già abituate da un pezzo a non seguirli perché non si ha tempo e perché si impara in fretta a badare a se stessi. Le loro case sono in cima alla rocca, che ora sembra un promontorio su un mare in burrasca. Non hanno niente di particolare da mettere al sicuro. Quello spettacolo in compenso merita di essere seguito in modo estremo ed allora il posto migliore è la scarpata sotto l'Oratorio. Anni dopo Nizzurin, parlandomi, non ricordava quasi più nulla, confondendo volti, tempi e luoghi perché la vita per fortuna è lunga e tante sono le cose che si ammucchiano. Ma come Poldo con i suoi colombi sotto il tetto, anche a lui un'immagine era rimasta impressa e per combinazione ancora di animali si parlava. Il ponte della Genova-Acqui, voluto dal Ministro Saracco 37 anni prima piroettava nel cielo ed i binari erano "bisce per aria" a sibilare come fruste dentro il rimbombo cupo e generale che da un'ora passava dal terreno allo stomaco della gente.
Quei ragazzotti i giorni prima erano polverosi come patate appena raccolte. Il 13 agosto del 1935, tempo d'arrivare all'una dopo pranzo, erano lavati dalla testa ai piedi. Anzi, quelli lasciamoli da parte, che gli zoccoli erano a casa. Dalla riva del Tanarone, dove si erano fermati quando era volato per aria il ponte, erano rimasti per un attimo, finalmente, tutti fermi e zitti. E schierate ad assistere a quello scempio si contavano le loro dita dei piedi, allineate e sporche di fango.
Angelo, che era tra loro, anni dopo fece un quadro per dare forma a quei momenti (che secondo lui foto non ce ne potevano essere). E non poté trattenersi dal dedicare qualche centimetro di tela in basso a destra ad un dettaglio che aveva bene a memoria: quella riga di dita che sembravano una tastiera di pianoforte. Il ricordo più chiaro di se stesso e della sua banda di amici. Era l'effetto finale di quella scena da incubo, vista come un imponente cinemascope che li aveva schiacciati e fatti star zitti e confinati ai bordi del mondo. 
Con solo le dita che spuntavano, quel giorno e per molti di loro per tutta la vita, dentro il trambusto delle cose che succedono.
Disastro di Molare
Non so se gli fosse chiaro, ad uno per l'altro, che lì si trattava di morte e di destini di intere famiglie che avrebbero cambiato strada. Certo c'era chi diceva che la diga aveva liberato solo parte dell'acqua (e Cristo, aveva ragione) e che sarebbe da lì a poco potuto arrivare ben di peggio. Toccava a loro, più agili di tutti, curiosi, protagonisti più di uomini, cercare un posto dove vedere. Volevano raggiungere la Priarona, ma non c'era ponte di ferro, spazzato via e a quest'ora impegnato ad arare i campi della Rebba. L'unica era risalire verso il Casello e trovare il passo per scavalcare il Crosio che si era gonfiato tanto da far sembrare la scarpata sotto la casa delle Suore l'ingresso di un fiordo. Fu così che a mettere il piede sui binari, prima dell'imbocco della galleria di Prasco, a qualcuno di loro venne in mente che il treno sarebbe sceso puntando su un ponte che non c'era. Questa storia gira in cento versioni. Certo che qualcuno fermò il treno che viaggiava senza notizie e a noi piace pensare che toccasse a questi ragazzi l'impresa. Fu una beffa cavare dai guai due carrozze ed una motrice, che, passata la guerra, li avrebbero portati per anni ed anni su e giù per Genova a lavorare in qualche fabbrica.
Arrivarono alla fine nel punto più alto. Saran state le 6 dopopranzo. Era spiovuto e si vedeva, ora, tutto. E tornava qualche colore. Furono raggiunti da un signore di Cremolino che aveva in mano una fotocamera coi fiocchi. Non vi erano ancora né giornalisti, né soccorsi.

Ancora una volta basta uno scatto e tanta fortuna a non averlo perso. E' come una foto della scentifica sulla scena del crimine. Niente è stato ancora toccato e c'è l'impronta del colpevole in quello sbuffo bianco che compare in alto a destra su dalla Valle dell'Orba.
(Da un racconto di Paolo Arbetelli)

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