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TRIBUTE

TRIBUTE TO AYRTON SENNA 

Vent’anni fa, il primo maggio del 1994, morì a Imola Ayrton Senna, uno dei piloti più amati della Formula 1. Un grande uomo, non solo in pista, dove oltre a essere grande era anche un combattente, ma nella vita.

Ayrton Senna è rimasto nella memoria di tutti appassionati e non solo, anche in quella della gente che di F1 non conosceva nulla, per il grande talento e la capacità di emozionare, con gare sempre al limite (e a volte anche oltre), oltre che per la sua grande umanità, non sempre così facile da trovare in un ambiente come la Formula 1. Se dobbiamo però prendere solo alcune delle sue qualità principali, quelle rimaste più impresse, parliamo della sua abilità di guidare in condizioni estreme e quella capacità di saper sfruttare l’ultimo giro utile nelle qualifiche, per strappare la pole position ai rivali.

I suoi numeri strepitosi rendono solo in parte il suo feeling con quel giro secco, per partire davanti a tutti nella gara del giorno dopo, ma vale comunque la pena di citarli: 65 pole position conquistate in 162 gare, cioè una ogni 2 o 3 gran premi. Una media mostruosa, diventata ancora più incredibile se consideriamo solo gli anni in cui aveva una macchina competitiva per il titolo (41 in quattro anni tra il 1988 ed il 1991). E proprio partendo davanti a tutti ha salutato il mondo terreno: tre pole nelle prime tre gare del 1994, seppur senza mai riuscire a terminare la gara.

La domenica, invece, Senna si esaltava se pioveva o, ancor meglio, diluviava. Mentre tutti gli avversari rallentavano o andavano fuori pista, lui macinava giri veloci e sorpassi, quasi come se l’asfalto fosse bagnato solo per gli altri. Le sue prime vittorie sono arrivate tutte con gli ombrelli aperti: la prima grande gara a Montecarlo 1984, il primo successo in Portogallo l’anno successivo ed il primo titolo mondiale a Suzuka 1988. Non è certo un caso, così come non lo è essere stato nominato il "mago della pioggia".

Ayrton Senna il campione. Quarantuno sigilli, poi il brusco stop. La carriera di Ayrton Senna in Formula 1 inizia nel 1984, ma dovrà aspettare un anno prima di salire sul gradino più alto del podio, all’Estoril, in Portogallo. Da allora, una marcia inarrestabile che lo porterà a dominare praticamente ovunque. Avrebbe infranto molti più record di quanti non abbia fatto nella sua carriera, Ayrton Senna. Tra il brasiliano e la conquista di tutte le classifiche si intromise però il destino. 

Ayrton diceva che con il Cielo aveva un rapporto speciale, un'amicizia consolidata, una fede incrollabile: ''Nessuno mi può separare dall'Amore di Dio''. Lui, che qualche tratto divino l'aveva nei lineamenti, nei gesti e soprattutto nell'enorme talento, se ne andò un pomeriggio di 20 anni fa facendo la cosa che, dopo Dio, amava di più: la velocità. Andando al massimo. A 300 all'ora.

Bisogna che qualcuno lo dica chi fosse davvero Ayrton Senna. Che possono saperne i ragazzi d'oggi, vent'anni fa non erano ancora nati! Il mondo al tempo di internet brucia in fretta i suoi protagonisti. Un'ora fa è il vecchio, ieri è il passato. E’ un modo diverso, quello del terzo millennio, di approcciare la storia. Tutto è così immediato, e l'istante dopo qualcosa distrae già l'attenzione. C'è altro da vedere. Vivere nella velocità è un dovere. Ecco, qui tra voi e lui c'è una somiglianza che forse vi aiuta a capire chi fosse in realtà questo gentiluomo brasiliano. Amava la velocità, si diceva. Viveva per lei. Morì, per lei.

Era l'1 maggio del 1994. Festa dei lavoratori. Forse fu l'unico giorno della sua vita, oltre che l'ultimo, in cui andò a lavorare contro voglia. Presagio di quello che sarebbe accaduto alle 14:17 di 20 anni fa? Forse (il Cielo gli era vicino, si diceva), ma soprattutto era quello che era accaduto nei giorni precedenti in quel maledetto fin di settimana imolese che lo turbava.

Lui era il miglior pilota in circolazione, da poco approdato alla corte di Frank Williams, dopo i trionfi e i tre mondiali conquistati con la McLaren. Nel frattempo una diavoleria ingegneristica che teneva le monoposto incollate al suolo, quali erano le sospensioni attive, era stata abolita, circostanza che purtroppo avrebbe giocato un ruolo, assieme a troppe altre, sul suo destino terreno. Lui era il più forte e sicuramente il più veloce in pista. Nelle prime tre gare di quell’anno fatale non a caso partì sempre dalla pole position, di cui era il recordman, 65 in carriera.

Eppure già in Brasile, al debutto, e nel prosieguo, in Giappone, non era riuscito ad arrivare alla bandiera a scacchi, vittima di piccoli e se vogliamo banali incidenti di percorso che avrebbero dovuto avvisarlo che c'era qualcosa nel mezzo che non andava a dovere. Primo al traguardo in entrambe quelle gare arrivò un certo Michael Schumacher, su Benetton. Che effetto fa pensare che, vent'anni dopo la scomparsa di Ayrton, il kaiser tedesco sia in un limbo di incoscienza per danni cerebrali analoghi, anche se non fatali, a quelli che uccisero il tre volte campione sette giri dopo il via del Gp di San Marino. Qualche astuzia tra i paletti del regolamento rendeva velocissima la macchina di Michael, ma soprattutto lui arrivava in fondo. La Williams no.

C'era qualcosa che disturbava la guida pulita (Ayrton resta l’eroe di sempre del giro perfetto) del miglior pilota della storia. Di certo, il nostro non sopportava di subire da quello sprezzante tedesco. E poi c'era qualcosa nella progettazione della sua macchina che non andava. Non c’era spazio a sufficienza, per le mani guantate, tra scocca e volante, le nocche sfregavano sul metallo che le circondava. I tecnici e i meccanici della scuderia fresarono quella parte del telaio, per dare maggiore agio alle manovre del pilota. Ma non bastava, forse fresarono il supporto sbagliato, forse fu quell'azione riparatrice la responsabile di quel cedimento strutturale del supporto che reggeva il volante, forse furono solo dettagli di un grande disegno che era stato scritto da qualche parte e doveva solo avverarsi.

Agli ingegneri, categoria sempre osannata a torto o ragione, venne in mente una soluzione stile uovo di Colombo. Segarono il piantone dello sterzo e saldarono una sezione di pochi centimetri, tra i due monconi separati, di spessore più ridotto nel giunto in cui l’asta si appoggiava, l’intero sistema sterzante sarebbe potuto scendere verso il basso di qualche millimetro, per dare maggiore agio alle mani di Ayrton.

Questo empirismo da officina ebbe un ruolo nel destino del campione brasiliano. Non c’erano più le sospensioni intelligenti, gli asfalti che fino a un anno prima risultavano lisci come un biliardo si rivelarono quell’anno per le nuove e meno sofisticate sospensioni un po' meno confortevoli, almeno il fondo del Circuito del Santerno. Dove prima le macchine passavano come sui binari, ecco che all’improvviso pareva di correre una sorta di rally. Pieni di dossi e di avvallamenti, di rugosità, i circuiti ’94. Le monoposto ballavano sull’asfalto come fosse un’esibizione di tip-tap. Troppo, evidentemente troppo, per l’indebolito piantone della Williams su cui Ayrton scaricava la forza delle sue mani per le curve e le correzioni di rotta.

E poi… Ci sono troppi poi in questa storia, eccolo, un ennesimo poi: i regolamenti erano meno sofisticati di oggi, le vie di fuga per ridurre le conseguenze di fuoripista erano meno lunghe, i muri erano di cemento e non protetti da schermi di gomma, e i prati in alcuni casi non erano in salita com’è logico ma a volte in discesa, con conseguente perdita di contatto col suolo e un devastante effetto planante. Così era quella al Tamburello di triste memoria.

E come un presagio di morte, l’uomo che sussurrava al Cielo aveva fatto triste tesoro dell’incidente a Roland Ratzenberger, in cui uno schianto su un muro costò la vita allo sfortunato pilota austriaco nel sabato di qualifica.

Nulla sarebbe più stato come prima. Prima di Senna. Dopo Senna. E non è un caso che dopo Ayrton, in pista, non sia più morto nessuno. Cambiò tutto, a partite dai regolamenti e dai crash test. Lui amava la velocità, i milioni di appassionati che lo compiangono come nessuno odiano che la velocità e un banale guasto meccanico abbiano privato il mondo del suo immenso talento. 

Oggi è tutto più sicuro. Almeno quel sacrificio non fu del tutto vano.

















† Rest in Peace Ayrton.


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TRIBUTE TO GABRIEL GARCIA MARQUEZ


Chissà se quel giorno in cui Gabo si accorse che stava per morire chiamato dal grande signore che sta in cielo, si ricordò del giorno in cui scrisse il suo più grande e indimenticato romanzo "Cent'anni di solitudine"?

Quel romanzo epico e travolgente, abbastanza da attirare milioni di lettori a leggerlo e rileggerlo inizia grosso modo così, con un ricordo di molti anni prima: 
"Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito."

La fucilazione di Aureliano Buendia immaginata in un dipinto di autore ignoto.
Venite gente a Macondo, un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come pietre preistoriche. Avvicinatevi signore e signori e lasciatevi ammaliare da Melquìades, lo zingaro che "diceva di possedere le chiavi di Nostradamus". Volate con Josè Arcadio Buendìa verso un futuro fantastico, fatto di pindarici progetti e illimitate fantasie. Combattete e amate donne in ogni dove, al fianco del generale Aureliano Buendìa. Guardate, guardate bene signori, e vedrete sei generazioni di Buendìa segnare le sorti di questo paese, divenuto alla fine, un "pauroso vortice di polvere e macerie centrifugato dalla collera dell'uragano biblico". Una saga familiare ricca di forza e visioni, un romanzo eccezionale, scritto nello stile suggestivo di uno dei padri della letteratura Sudamericana.

Chi era Gabriel Garcia Marquez?

Era prima di tutto un amante dello scrivere, scrivere per affascinare, per attrarre il lettore, anche quello più distratto. Per distrazione o per noia iniziai a leggere il mio primo libro di Gabo, quei Cent'anni di solitudine che non m'hanno più abbandonato. L'unico libro che ho letto e riletto almeno tre volte nella mia lingua e poi in inglese, in francese e recentemente nella lingua originale. E queste continue letture possono sembrare astruse, vuote di significato, invece ne hanno molti. Leggere e rileggere focalizzandosi ogni volta su un diverso filone della storia per cogliere le sfumature. Cent'anni di solitudine credo che sia l'unico libro che permette, attraverso un lirismo mitico e un accentuato surrealismo, svariate interpretazioni personalizzate. Diviene difficile scrivere un commento al libro perché arriva a sfiorare delle corde profonde, che appartengono a ognuno di noi e sono parte del nostro (più o meno celato, ma immancabile) disagio esistenziale. Tra queste pagine c'è solitudine, appunto, c'è malinconia, rabbia, volontà di cambiare, e nonostante la lotta si giunge sempre alla resa davanti ad un “tiempo” che sembra riproporre, quasi beffardo, giorni sempre uguali, in cui si succedono generazioni di uomini dal nome altrettanto uguale, che ricorda loro - fin dalla nascita - un destino segnato e distinato alla solitudine. 

Gabriel García Márquez, morto il 17 Aprile 2014 a Città del Messico aveva 87 anni. Era stato ricoverato in ospedale il 3 aprile per una polmonite che tardava a guarire ma anche una lunga malattia succeduta al tumore estratto e apparentemente ben curato che lo colpi nel 1999. L'autore colombiano, premio Nobel per la Letteratura e padre del realismo magico ibero-americano, se n'è andato in silenzio e tutto il mondo piange la sua scomparsa.
Il simbolo di Macondo copertina di una versione Italiana di Cent'anni di Solitudine.
Prima di diventare l’autore-simbolo di un’intera generazione, di un continente e di una lingua, "Gabo" è stato per anni un grande giornalista, un periodista attento, poetico e duro, dei più drammatici avvenimenti che avevano mutato la mappa di mezzo mondo, dalle rivoluzioni di Cuba e del Portogallo alla tragedia cilena, a Ernesto "Che" Guevara, ai cubani in Angola, ai montoneros, ai dittatori centroamericani, alla Spagna postfranchista di Felipe Gonzales. Nato ad Aracataca, Magdalena, nel 1928, ha mescolato nella propria opera la dimensione reale e quella fantastica, dando impulso allo stile della narrativa latino-americana definito "realismo magico", di cui “Cien anos de soledad” (1967) rappresenta un manifesto. Nel 1982 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Pubblicò “La hojarasca” nel 1955, analisi di un suicidio attraverso il monologo di tre testimoni che portano alla luce vicende e passioni di tutto un paese nel corso di un secolo. Seguirono Nessuno scrive al colonnelle (1961), I funerali della Mamà Grande (1962) e La mala ora (1962).

La sua opera di maggior successo, “Cent’anni di solitudine”, narra di un paese leggendario, Macondo, sul cui sfondo si intrecciano avvenimenti e fantasticherie, eroismi, crudeltà e solitudine. Ma ciò che più conta nel romanzo è la particolare struttura narrativa in cui la metafora e il mito acquistano valore nel quadro di una nuova visione della realtà. Dopo “Racconto di un naufrago” (1970), il volume di racconti “La incredibile e triste storia de la candida Erendira e della sua nonna snaturata” (1972) e una raccolta di articoli torna al romanzo con “L’autunno del patriarca” (1975), in cui rievoca, con il suo personale lirismo mitico e con accentuato surrealismo, la figura tragico-grottesca di un dittatore sudamericano. 
Disegni raffiguranti gli abitanti di Macondo
La sua produzione, quasi interamente tradotta in italiano, comprende i romanzi “Cronaca di una morte annunciate” (1982), “L’amore ai tempi del colera” (1985) e “Il generale nel suo labirinto” (1989), riflessione sul potere attraverso la narrazione degli ultimi giorni di vita di Simon Bolivar. Del 1992 è, invece, la raccolta di racconti “Dodici racconti raminghi”, a metà tra realtà e fantasia. “Dell’amore e altri demoni” (1994) indaga, attraverso la storia di una ragazza internata in un convento perché ritenuta indemoniata, sull’ineluttabilità e sull’inspiegabilità del sentimento amoroso. Ha poi scritto “Vivere per raccontarla” (2002) e “Memoria delle mie puttane tristi” (2004), un romanzo che racconta la storia di un vecchio giornalista che, a novant’anni, trascorre una notte con una ragazzina illibata, rimanendone piacevolmente sconvolto al punto da incominciare, quasi, un nuovo percorso di vita.
Rappresentazione dell'allegoria di Macondo e della sua gente

Lo scoprirono i tanti figli del Sessantotto, colpiti proprio da “Cent’anni di solitudine”, presto imitati dalla generazione successiva: milioni di lettori sparsi ovunque. Gli amici lo chiamavano Gabo. Per tutti gli altri era uno dei più amati premi Nobel per la letteratura, che vinse 1982. I titoli dei suoi romanzi sono entrati perfino nei luoghi comuni, quante volte avrete sicuramente letto titoloni sui quotidiani recitare a caratteri cubitali “Cronaca di una morte annunciata” a proposito di qualche politico caduto in disgrazia? Ebbene si tratta di un libro di Gabriel Garcia Marquez, un libro di successo come molti altri. Anche quell'altro “L’amore ai tempi del colera” trova spesso mezione per altri intendimenti nei nostri luoghi comuni.
Gabo non aveva mai nascosto le sue simpatie per Fidel Castro e per il regime di Chavez in Venezuela, tantomeno la sua acerrima avversità per i narcos che ammorbano la Colombia con immensi traffici di droga. Era perfino celebre la rivalità, anche in amore, con il peruviano Mario Vargas Llosa, che lo sfidò a duello a pugni, anche se poi non mancò di lodarlo come un gigante della letteratura.
Il tumore che lo afflisse nel 1999 lo portò anche ad una svolta letteraria, più rivolta verso uno stile memorialistico, ma sempre caratterizzato dall’ironia. Fu così che pubblicò “Memoria delle mie puttane tristi”, ultimo sforzo narrativo. I quotidiani di tutto il mondo hanno riportato la notizia della sua morte con grande risalto in prima pagina.
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†  Rest in Peace Gabo.

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TRIBUTE TO NELSON MANDELA


La notizia che Nelson "Madiba" Mandela, primo presidente nero del Sud Africa, era morto, l’ho appresa attraverso internet. Non guardo da diverso tempo programmi televisivi, sia perché non condivido la cultura televisiva della nazione che mi ospita troppo simile a quella italica dalla quale sono fuggito, sia perché i soliti programmi televisivi non mi appagano a sufficienza, preferisco un buon film o documentario oppure leggere le news online. 

La mia reazione è stata di incredulità. Ho allora cercato la notizia su altri media, quasi sperando in una smentita. Il primo sentimento che ho provato è stato, a sorpresa, di risentimento. Ho sempre considerato positivamente la sua esperienza, già quando fu rilasciato dal carcere e anche durante la successiva e ovvia presidenza, anche durante poi il pensionamento forzoso, non era sua volontà ritirarsi ma gli fu imposto e comunque mi era sembrato giusto che facesse spazio ai giovani, nuove idee, nuove proposte e poi durante i suoi ultimi anni, tutto veniva a formare un quadro molto positivo di lui. Eppure ho provato un forte senso di risentimento. Mi chiedevo perché.

Dopo qualche introspezione, ho capito. Tutti i media elogiavano Mandela. Era diventato un santo. La stragrande maggioranza di coloro che in quei giorni hanno ricordato l’ex-presidente sudafricano lo ha eretto ad una sorta di “eroe planetario”. Un quotidiano di sinistra portoghese lo ha perfino paragonato a Gesù Cristo. Sicuramente ha vissuto per gli altri, ha anche perdonato coloro che lo avevano imprigionato, ha combattuto un regime brutale con parole di pace; ha ispirato molti sudafricani a unirsi, diventando un'icona per il mondo, e così via. Una lettura puramente agiografica della vicenda umana e politica di Nelson Mandela presenta, senza dubbio, un notevole fascino, ma rappresenta al tempo stesso un approccio non soddisfacente, perché non rende giustizia alla complessità della storia politica sudafricana. Eppoi certe notizie sembravano solo la ripetizione di un testo scritto da altri. Chi fa del proprio mestiere l’informazione dovrebbe essere obiettivo, dovrebbe fornire notizie corrette e non edulcorate per vendere più pagine di carta o abbonamenti internet o tv. Queste dovrebbero essere imparziali. È necessaria una visione più equilibrata.


Con Nelson Mandela se n’è andata una delle figure più importanti, conosciute e “simboliche” del ventesimo secolo. In primo luogo, Nelson Mandela è stato qualcuno che per davvero doveva essere ammirato, dato che fin dall'inizio la sua vita era piuttosto privilegiata (non sono pazzo, era una predestinato anche prima di essere imprigionato), decise di vivere e lavorare per il suo popolo, per farlo uscire da quello stato di schiavitù mascherata da libertà. Era un popolo libero solo a parole, nella realtà costretto a lavorare e servire quello dominante per poi essere ricambiato con la violenza e l’odio. Mandela combatteva contro quel destino avverso. Ciò non di meno era davvero un privilegiato. Il suo clan era quello di Madiba, un clan che ha fornito molti re per la sua Aba Thembu (Thembu=persone, regno di persone). Queste persone, a causa della loro lingua, furono chiamati "Xhosa", il popolo Thembu erano un popolo indipendente fino a poco tempo fa. Per chi ha sempre pensato al popolo bianco usurpatore delle terre africane vorrei aggiungere che contrariamente alla credenza popolare, la stragrande maggioranza dei neri in Sud Africa non sono nativi, ma sono arrivati a milioni dai paesi limitrofi solo dopo che i boeri crearono una nazione con una fiorente economia, vaste opportunità di istruzione e notevoli benefici medici. Era quindi sbagliato considerare il popolo nero indigeno dell’estremo territorio africano del sud e estraneo il popolo dei bianchi europei. In questa visione realistica l’unico popolo che avrebbe potuto vantare diritti territoriali fu quello dei boscimani, praticamente scomparso poche decine di anni dopo l’insediamento delle colonie boere nelle province del Capo di Buona Speranza. 

Mandela era un appartenente al popolo Thembu, di origine Bantu e provenienti dall’Africa centrale e non uno Zulu come molti media nostrani hanno indicato. Mandela è andato alle scuole private a pagamento, e frequentò Fort Hare, che era l'unica università per i neri in Sud Africa a quel tempo. Davvero un privilegiato.

E anche questo è parte del risentimento. I genitori di molti miei amici sudafricani bianchi erano rifugiati. Non avevano privilegi, i bambini dei rifugiati non andavano nelle scuole private ne tantomeno ammessi alle università di prestigio anche se di casta e certamente essi non avevano ne potevano vantare nessuna origine nobile di fantasia, reale o altro. Torniamo dunque a Mandela senza dimenticare che il rischio di una analisi affrettata è quello di sacrificare tanto l’analisi storica, quanto quella politica al bisogno collettivo (e mediatico) di costruire eroi e di evidenziare contrapposizioni manichee. 
Mandela presenta, nei fatti, non solo momenti “alti”, ma anche passaggi più controversi, incluso il ricorso a mezzi non sempre giustificati dai fini. E parlo della violenza. Naturalmente, quando una persona scompare, è buona regola parlare innanzitutto dei suoi meriti, almeno quando ciò è possibile, e nel caso di Nelson Mandela ciò è sicuramente possibile. Il più grande merito di Nelson Mandela è quello di aver gestito con notevole maturità la riconciliazione sudafricana, negli anni immediatamente seguenti alla fine dell’apartheid.


Mandela arrivò a un punto, comprensibile, dove decise di creare un movimento rivoluzionario comunista, per rovesciare il sistema con la violenza. Perché è meglio che si sappia. L’ANC e il suo braccio violento contro l’Apartheid era stato creato e voluto da Mandela, per rovesciare i dominatori bianchi boeri con gli stessi mezzi usati da questi contro la sua gente. Questa è la verità, lo stesso vincitore del Premio Nobel per la Pace e leader del Congresso Nazionale Africano (ANC) Albert Luthuli inorridì quando si seppe che alla base della campagna di violenze contro il regime c’era Nelson Mandela!(2)

In seguito, e a malincuore, Luthuli diede una benedizione qualificata per la "Lotta di classe" (modificata per essere più appetibile per i sostenitori occidentali in "lotta per la libertà"). Luthuli era prima di tutto e sempre un cristiano e quindi comprensibilmente non entusiasta di fondare un'organizzazione di guerriglia marxista. Più tardi, diede la sua benedizione, ma non fu mai un sostenitore attivo della politica dell’ANC.

Nella cultura tradizionale africana esiste un complesso sistema di obblighi a incastro che vanno d’accordo con l'appartenenza a un clan o a una famiglia allargata. Questi includono legami matrimoniali, ma anche la spiritualità e l'organizzazione sociale. Luthuli, come cristiano, avrebbe messo se stesso al di fuori di questi legami, mentre Mandela è rimasto nel "sistema". Questo gli diede il tipo di influenza che non avrebbe altrimenti avuto.


In contrasto con Luthuli, Mandela sentì che la violenza era necessaria. Sentiva che tutte le altre vie per trattare con il governo dell'apartheid si erano esaurite, non era realmente così, fu portato a credere che fosse così, quindi creò Umkhonto we Sizwe (Lancia della Nazione), un'organizzazione guerrigliera di stampo comunista. Non è vero, quindi, che Mandela era un pacifista e poneva innanzitutto una resistenza pacifica contro l'apartheid. All’apparenza si, ma dietro le quinte, in una realtà che doveva restare nascosta fu tutto il contrario e lo scrivo qui senza il timore di essere smentito, queste informazioni derivano dai fatti, da fatti, concreti(1). Il Mandela di quel tempo era tutto a favore della rivoluzione armata. La domanda che sorge spontanea è: qual era lo scopo di questa rivoluzione? Era la democrazia? Ne dubito fortemente. Le loro parole a quel tempo (e che ora negano di averle mai pronunciate) erano pura terminologia comunista. Nessuno ha mai citato gente come Edmund Burke, Jean Jacques Rousseau e Thomas Jefferson. Hanno solo citato Marx, Lenin, Mao e gli altri killer professionisti. Tutti ideologi nei loro paesi, molti di loro ricusati dai loro stessi concittadini e morti in miseria. Lo stesso Lenin e poi Mao, leader acclamati da vivi e mal considerati una volta trapassati. Alcuni dei leader di ANC ancora citano queste mummie comuniste come la soluzione di tutti i mali non accorgendosi che il mondo cambia, è cambiato tanto rapidamente da permettere l’abbattimento dei muri veri, o virtuali, di divisione fra il mondo comunista e quello capitalista. 

Torniamo per un momento a Mandela e a quel 1993. Io c’ero, ero li, a Johannesburg e poi a Cape Town. Io vidi con i miei occhi tutto e posso affermare con certezza e riportare al mondo quello che vidi e ho avuto modo di vivere. Nel 1993 il Sud Africa era un paese lacerato e quindi erano presenti tutti gli ingredienti per uno scenario di guerra civile. Gruppi paramilitari bianchi ben organizzati e pronti all’azione, una popolazione nera esasperata ed ideologizzata e violente contrapposizioni tra African National Congress e Inkhata nella provincia del Kwazulu-Natal. In questo delicato contesto si inserì Nelson Mandela, canalizzando i sentimenti rivoluzionari dei neri in un progetto gradualista ed al tempo stesso a conquistare presso l’elettorato bianco quel tanto di fiducia che bastava per legittimare il nuovo assetto politico. 

Parole, apparenza, fumo negli occhi, un camaleontismo collaudato. Il Mandela buonista volto di Giano bifronte che sorrideva al nemico bianco, mentre dall’altra l’MK e il Mandela reazionario girato dall'altra parte. L’ANC aveva aderito alla guerra fredda al fianco dell’Unione Sovietica, della Cina comunista che passavano loro le armi e gli esplosivi per uccidere innocenti, bianchi certo e boeri, ma sempre innocenti. Era una guerra contro un sistema, non solo ideologico ma totale. Bianco contro nero per l’annientamento finale. Che poi annientamento non ci fu, anche a causa di forti pressioni da parte di altre potenze schierate all’altro lato della barricata, gli Stati Uniti d’America in primo luogo. Si disse che a soffiare sul fuoco di liberazione sudafricano ci fossero gli USA. Niente di più falso. Era vero che agli americani il regime non faceva più comodo, era anche vero che cercarono in diverse occasioni di “scippare” il grande business dell’oro e dei diamanti ancora saldamente in mano a organizzazioni boere, ma era anche evidente che entrare come un elefante in una cristalleria nel fragile momento sudafricano equivaleva a distruggere quelle possibili opportunità di poter metter mano un giorno sulle grandi ricchezze della nazione arcobaleno come Desmond Tutu ebbe a chiamarla.


In quegli anni non tutti furono contrari al nuovo sistema che pensavano dovesse venire instaurato. Durante la fine dell’era coloniale, di cui una parte ha coinciso con la guerra fredda, molte persone altrimenti decenti erano disposte a tollerare i crimini del comunismo al fine di contrastare più efficacemente la Gran Bretagna, la Francia o il Belgio nelle loro lotte per l'indipendenza. In altre parole, coloro che hanno combattuto per i loro fondamentali diritti umani, della democrazia multipartitica e la libertà di parola, hanno combattuto idealmente a fianco dell’URSS che schiacciava i sogni di libertà e indipendenza del popolo ungherese! Quello non era il comportamento di un uomo di pace! Mandela e la sua organizzazione non erano nello stesso campionato come Mahatma Gandhi o il Dalai Lama!

Tuttavia Nelson Mandela non fu solamente un pacifista e pacificatore. Fu anche, nei fatti, il leader di un movimento che a lungo ha seguito strade politiche violente e aderito a visioni politiche marxiste e filosovietiche. Nella delicata questione sudafricana, l’African National Congress è stato per decenni parte del problema, non parte della soluzione. L’ideologia comunista dell’ANC e il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica rappresentavano un elemento di assoluta incomunicabilità con l’opinione pubblica bianca che negli anni si compattava sempre di più a sostegno del National Party al governo come pure di partiti alla sua destra. Tanto più i neri erano visti come rivoluzionari, tanto più nel dibattito politico bianco si indebolivano le posizioni dei verligtes (riformatori) a favore dei verkramptes (conservatori) e tanto più il Sud Africa bianco percepiva di trovarsi di fronte alla scelta binaria tra comunismo e apartheid.

Andando quindi in ordine cronologico, quando nel 1942 Mandela si unì all’ANC un partito “gemello” di quello di Gandhi, ma dallo stile decisamente diverso, fondò al suo interno la Youth League; e qualche anno dopo diventa comandante dell’ala armata del partito, la Umkhonto we Sizwe, o Lancia della Nazione come detto precedentemente. Mi seguite? Non ci siamo persi nulla nella disanima dell’uomo Mandela. Mi si dirà che le persone cambiano, che adesso è troppo facile sparare sull’uomo Mandela che non può difendersi, che forse non sono informato a sufficienza o di parte. Nel 1962 Mandela viene arrestato a causa delle sue attività, e sommando due processi gli viene comminato l’ergastolo. Sulla base di un processo giusto, riuscì a evitare la condanna a morte. Questo è quanto ci dicono i media “ufficiali”. Ma nessuno ci dice il perché. Forse la commissione Amnesty International che rifiutò di appoggiare il suo caso sbagliò, ritenendo che Mandela non fosse un prigioniero politico ma un “terrorista violento, condannato nell’ambito di un giusto processo”?

Mandela fu arrestato e trovato colpevole non di volere la democrazia e la libertà, anzi di aver cercato di rovesciare il governo legalmente costituito e eletto dal popolo sudafricano seppur format dai soli bianchi. Senza dubbio egli aveva delle buone ragioni per volerlo. Nessun governo, democratico o meno, può tollerare chi cerca di rovesciare il sistema con la violenza. Quindi, Nelson Mandela trascorse 18 anni a Robben Island. Poi fu trasferito in condizioni molto più confortevoli nella prigione di Polsmoor e in seguito agli arresti domiciliari presso la prigione Victor Verster. Non meravigliatevi. Nelson Mandela un domicilio reale non l’aveva più da quasi trentanni, l’ultimo conosciuto era quello di una prigione, dorata rispetto alle precedenti dove aveva trascorso I suoi anni peggiori, sempre un luogo di detenzione.

Quando Mandela fu rilasciato, il mondo era cambiato e lui era abbastanza grande per cambiare con esso. Fu capace quindi di scavare in profondità nella cultura africana tradizionale, dove esisteva un concetto che meritava di essere ampiamente pubblicizzato. Si chiamava Ubuntu. Significa "umanità". Mandela, a differenza del suo predecessore Luthuli non era Cristiano, era stato battezzato ma non aveva abbracciato mai la religion Cristiana, non si riconosceva in essa, invece aveva utilizzato l'antico concetto di umanità. Come Gesù Cristo 2000 anni prima era pronto a riconciliarsi con i suoi ex nemici e aguzzini. Era pronto a mettere da parte qualunque sentimento personale che potesse aver avuto e considerare il bene comune di tutto il popolo del Sud Africa. E così Nelson Mandela spostato dall'essere solo un altro rivoluzionario comunista/socialista del Terzo Mondo cominciò a essere considerato uno statista. Lui stesso sentiva che poteva diventarlo, anzi agiva come se lo fosse. Il passo fu breve. Dopo la sua elezione, nel 1994, lavorò instancabilmente per unire i sudafricani, e vorrei dire che è riuscito in questa sua opera immane.

Rispetto profondamente Madiba e ora che è morto, posso senza remore salutare un uomo rispettabile che, attraverso la riconciliazione e la visione, ha contribuito a iniziare un nuovo capitolo nella storia del South Africa.

Ma si dice spesso che era una visione viziata e lo era veramente. 

Non voglio tuttavia costruire un santuario per il presunto santo. 
Saluto lo statista. Onore delle armi.

Riposa in pace, Madiba!

Note:

(1) http://americanfreepress.net/?p=11873
(2) http://youtu.be/fcOXqFQw2hc








†  Rest in Peace Madiba.
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TRIBUTE TO JAMES GANDOLFINI


James Gandolfini era un grande, di quelli che non si vedono spesso. Nella vita come nella finzione. Quando succede che la dama nera prende uno tra i più grandi non fai a tempo a sederti davanti alla tv che già lo sanno tutti. Il computer ti riporta all’istante tutto quello che potevi sapere sulla fine tragica di questo personaggio amato dal pubblico di casa nostra e oltre oceano, forse del mondo interno. James Gandolfini è morto oggi, stroncato da un infarto a 51 anni, è morto a Roma capitale di quella nazione che comprende la Sicilia. Tony Soprano era un mafioso siciliano e James Gandolfini si immedesimava alla perfezione nel personaggio tanto da venire additato anche egli come un mafioso, buono per carità, simpatico, di quelli che, nel mondo da lui interpretato, spereresti di incontrare qualche volta ma non succede mai. Una notizia di quelle che sorprendono, una breaking news destinata a rimbalzare ai quattro angoli del pianeta alla velocità della luce.

Sarebbe insomma davvero inadatto propinarvi un riassunto della carriera di James, perchè sarebbe un’inutile ripetizione, ormai tutti in rete hanno scritto di lui, che dovrei mai scrivere io che sono l’ultimo arrivato? Parto da un pensiero dunque, come succede quando a lasciarci è un amico, uno di quelli cari, che si conoscono da sempre. Parto dalle condoglianze alla famiglia, ricordando l’uomo, prima di tutto padre, marito e attore. Parlo del dolore dei colleghi lasciando per ultimi i fans, soprattutto di quelli che sono impazziti per i Soprano, non perché li vedo male, del resto sono loro che apprezzando fin da subito la serie culto che ha cambiato la storia della televisione del costume americano hanno creato e elevato al rango di grande James. No, perché tutto sommato, e per quanto questa partenza senza ritorno improvvisa possa generare confusione, dolore e rimpianti, sono sicuro che lui rimarrà nel cuore della gente solo fino a quando un altro personaggio bucherà lo schermo appropriandosi dei fans del nostro James. 

Allora preferisco salutare questo grande attore parlando di lui, della sua umanità, del suo essere, nonostante tutto, alla mano, disponibile, nella vita come nel lavoro. Lui James, alias Tony, alias James, era uno di noi. Non dimenticatevelo. Lui non era solo una gran signore, gentile, modesto, un mattatore, simpatico, lui era un vero fuoriclasse del set. E questo anche se la sua fama è legata inevitabilmente alla televisione e al ruolo di Tony Soprano, boss nel New Jersey alle prese con inverosimili crisi di panico. Lui aveva collezionato una serie notevole di successi nella sua carriera cinematografica. Una su tutte: "L'uomo che non c'era", magnifico noir dei fratelli Joel ed Ethan Coen, in cui recitava accanto a Billy Bob Thornton e Frances McDormand. Il film nel quale è riuscito a fondere alla perfezione l'intensità sentimentale con la fisicità bestiale che caratterizzava i suoi personaggi. Era un uomo speciale, un grande talento, che con il suo straordinario senso dell’umorismo, il suo calore e il suo rispetto, ha toccato il cuore a molte persone.

Cosa rimane a chi ha saputo apprezzarlo? La consapevolezza che con James se ne vanno anche le residue speranze di poter assistere un giorno o l'altro a un clamoroso ritorno dei Soprano. Difficile evento, molto improbabile come è tradizione dei Serials americani, qualcuno aveva ben sperato. Ormai da oggi assolutamente impossibile. Sarebbe come girare una nuova avventura episodio del maghetto Harry Potter senza Daniel Radcliffe. Quando muore un personaggio di livello, uno di quelli che bucano lo schermo, ti sembra che niente sarà come prima. Poi, per fortuna, la vita ti fa cambiare idea. Ma oggi no, oggi siamo tutti con lui, il nostro James Gandolfini. 

Grazie di tutto James, ci mancherai.









Un gestaccio certo, alla morte che pure l'ha portato via. R.I.P.
†  Rest in Peace James.

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TRIBUTE TO REEVA STEENKAMP


R.I.P. Sweet Reeva

How do you react when a Star (understood as a familiar face of TV, Radio, Movies and Sports) dies as a result of a violent act?

We react badly, 'cause we are deeply convinced that becoming famous enhances the security awareness. I don't know about you, but for me it is. We do not expect someone to die at the hands of those who should have protected her.

In this case, too damn often, that's our personal defenses do not work, even the stars, seen as prima donnas of the star system, they become victims of violent brutes who do not care who the person is, when they decide to end a relationship uncomfortable or want to vent aberrant instincts.

Life is not a talk show. If it was that a show, after a sad news it would enable the dancers to dance, breasts and thighs fill the screen, along with toothpaste smiles. Life is not a talk show, where everything is on the same level, serious things and others do not, in the end you do not understand what is important and what is not.
Hope dies when a woman dies, she dies when dies emancipation, progress, reconciliation. 
Almost psychotherapy hope, over the din of frantic shouting, and it kills, and enjoys looking in the mirror of their own stupidity. 
Hope dies when a woman dies, one of many, one of too many. A symbol dies and win the world upside down, what reasoning upside down.


Whether it is a mere coincidence or a mocking fate is unknown. A beautiful woman, Reeva Steenkamp, ​​was slaughtered to death by her boyfriend Oscar Pistorius.

Reeva was a young woman full of life attentive to the problems of being a woman in a country where violence against women has become almost normal. Reeva had added to the network last photo that was about violence against women. The image was published to commemorate Anene Booysen, a girl of only 17 years, raped, mutilated and murdered on February 2 at a yard near Bredasdorp, South Africa. The photo was published by the model the 10th February, writing, among other things: "I woke up in a safe house and happy. Not everyone understood. We have to take side against sexual violence in South Africa. Rip Anene Booysen. "

Unfortunately it was not so. Reeva also was the victim of "violence" by "her" man, the big, no more big, paralympic athlete Pistorius. 

Such violence will never end? It has been said all of this brutal murder, claiming various excuses to defend not the memory of the victim already known and appreciated in a world that does not involve people emotionally, but of her killer, an athlete who had shown courage and dedication to achieve his goals while being an athlete crippled the amputation of both legs.

This is how our subconscious leads to mourn the athlete even if murderess, athlete and therefore representative of an icy world of purity, consistency, determination. Not the victim who has suffered the athlete man became man beast. The beast in man has arrogated to itself the right to kill, to massacre a beautiful woman for trivial reasons.

In which world do we live in where a man arrogates to himself the right to decide the lives of others on the basis of petty reasons, reasons senseless, it was easier to say no and let live? This is a world where violence, like instinct, is still permitted? We are aware that continue to be violent towards women, women of this planet, wrongly identified as representatives of a weaker sex that proves stronger than us, brings nothing but the moral catastrophe of all our highest values​​?

Violence, all violence must be fought and defeated. Do not hide ourselves behind fake truth. The man who kills in war does not kill for violence, kill or be killed, kills a sacred right to life, not his but that of an entire people. I will say that the war is absurd, it might be true but it is not violence, if so then they would all deaths that we see daily in the environment where we live, both on the road in factories, homes, hospitals, schools and barracks. But violence is inherent in the human soul and shall be eradicated, annihilated, otherwise she will eventually destroy us.

Violence is abuse of power and control that is manifested through the physical and sexual abuse, psychological and economic. This happens particularly when we know who uses violence and we are tied to the individual who is a man or woman, it does not constitute grounds for differentiation, but here I discuss violence against women and then identify a male and then be strong, bound by a relationship emotional relationship with the victim - the partner, the parents, some friends - even in aggression suffered by foreign physical violence is made ​​of threats, humiliation, restriction of freedom. What is the point of all this? I am told that the men need to vent their instincts aberrant? For this reason there are bullfights, wars, violent sports that teach man anything but to continue to cultivate the same violence?

We must combat violence against women, against children, against those who can not defend themselves, fight forms of mental cruelty, psychological violence, lack of respect that demeans the dignity and offends. We say no to those who constantly criticizes, demeans, makes a mockery of the woman in front of others, insults, pursues and controls, annihilates with jealousy, lack of trust, from seeing friends or family. Say no to those who threaten to harm them.

Say no to violence for a better world.







































†  Rest in Peace Reeva.

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